Genesi

  • di Redazione
  • 1 Novembre 2019
  • La collana di perle di Giulia

Nel venerdì dedicato all’appuntamento con la rubrica "La collana di perle di Giulia" curata da Giulia Muntoni, la nostra amica ci regala un contenuto speciale: un racconto pubblicato all’interno dell’ antologia di "Donna sopra le righe"

Sono nata con una missione, come tutti, solo che io l’ho sempre saputo. Ho vissuto i miei primi anni avvolta in un candore che mi ha protetta e conservata intatta nell’anima. Pensavo che quella condizione fosse la norma, fino al giorno in cui mia sorella mi ha fatto notare quanto straordinarie fossero la mia allegria e la mia serenità e, in quell’attimo, il mio incantesimo si è rotto, proprio come quando Adamo ed Eva hanno provato vergogna per la propria nudità solo dopo aver morso la mela. Così, a poco a poco, ho iniziato ad appartenere anche a questa terra. Da allora, i corsi e ricorsi della mia vita hanno, a volte, come le maree, coperto le tracce del mio procedere ma mai così a lungo da farmi dimenticare dove fossi diretta né, soprattutto, da dove venissi. Sono stata annunciata da una colomba bianca che i miei genitori hanno nutrito con stupore per una settimana, prima di scoprire che mi avrebbero avuta. Mi sono spesso interrogata su quel segno, a detta di mio padre premonitore, e ritengo che sia stato posto lì ad indicarmi la strada, quasi a sancire un passaggio del testimone da quei due esseri umani pieni di gioia e di speranze, a me, nuovo anello di una catena destinata a recepire e fare propri i messaggi della Vita. Io, ultima di due figlie, abbastanza fortunata da discendere da generazioni di uomini eccezionali e illuminati ai quali ogni giorno cerco di rendere onore. Nei miei 39 anni, mi sembra di avere già vissuto almeno sette delle nove vite che gli anglosassoni attribuiscono ai gatti, ben due in più rispetto a noi, per fortuna, vista la mia tendenza a consumarle. Non per mia volontà, si intenda. Tra tutte, quella attuale, alla quale sono più affezionata, è stata di sicuro il regalo più inatteso. A pensarci bene oggi, dopo aver sperimentato ogni possibile stato d’animo e il suo contrario, avere una diagnosi di tumore è, concettualmente, come scoprire di essere incinta: qualunque cosa tu decida di fare con quella notizia, nessun dettaglio della tua vita sarà più lo stesso. Ho il ricordo di me, bambina, in piedi accanto al giradischi intenta ad ascoltare il vinile del Peer Gynt di Grieg. Una musica malinconica, a tratti animata da un brio che sa più di agitazione che di gioia e che, a poco a poco, diventa quasi ansioso. E capisco, forse, di assomigliarle in parte: malinconica, sicuramente, lo sono sempre stata nonostante il mio carattere entusiasta. Eppure, cosa che avrei perso più tardi, ricordo la serenità con la quale mi avvicinavo alla solitudine, ignara della belva feroce che avevo davanti, con la stessa fiducia di un neonato che si spinga tranquillo verso un leone accucciato, credendolo mansueto. Quando il cancro mi ha trovata, di quella serenità non era rimasto che un ricordo, tutto sbiadito e stropicciato dal mio stringerlo nel pugno. In quel momento non potevo immaginare che le montagne russe sulle quali mi accingevo a salire me l’avrebbero restituita, la mia pace, dapprima in quantità massicce, quasi a farmi strafogare dopo tanta carestia, e poi sempre di meno, a piccole dosi, in misura proporzionale e contraria a quella delle medicine che mi stavano curando. È strana la percezione che un malato di cancro ha di cosa sia salvifico o dannoso: finiamo per accogliere con gioia il veleno che ci cura ma, magari, rifiutiamo con disprezzo di abbracciare gli spigoli di quel nostro carattere che è poi il motivo stesso grazie al quale siamo qui, e abbiamo superato prove che avrebbero sbaragliato un esercito compatto. Le persone più sensibili, in fondo, sono tutte simili: piene di compassione e giustificazioni per il prossimo, ma implacabili e severe con se stesse. Davanti ad una "macchina del fango" fatta in casa come questa, nessuno può mai fare più di tanto. Nessuno tranne un tumore. È stato l’improvviso silenzio, inizialmente, ad annunciarlo. Non la paura, la trepidazione, la risolutezza. Quelle son venute dopo. Il nome del tumore pronunciato a voce alta per darmene notizia ha spento di botto i miei pensieri. Ancora oggi, gliene sono grata. Quel grumo di cellule impazzite ha trovato, senza sforzo, il bottone per resettarmi. E, per un po’, nulla si è mosso. In seguito, mi sarebbe mancata quella stasi surreale, così simile all’universo come mi piace immaginarlo prima che la vita cominciasse. E Vita è stata, per fortuna, anche nel mio caso. Luce soprattutto, tanta luce. Trovo poco interessante soffermarmi più di tanto sui dettagli. Le cure e i loro effetti, dopo un po’, si somigliano tutte, sono quasi ininfluenti sulle sorti umane di una storia. È nel sottobosco dei pensieri, che si condensa, a mio giudizio, un’esperienza a chiaro scuro come questa. Nelle reazioni emotive che, come quelle chimiche nel cosmo, hanno il potere di creare in noi speranza o cancellarla. In quello che avremo capito o in quanto ci saremo rifiutati di imparare. È in TUTTO questo il senso, qualunque sia quello che gli daremo. Non crucciatevi da fuori se un malato, qualche volta, si discosta. Chè non si può raccontare una storia prima di averne capito la trama. Io, per esempio, dopo anni, sono ancora qui a parlarne. Perché non c’è e non c’è stata, nel frattempo, una fase simile alla precedente. Il passare del tempo, croce e delizia, a intervalli irregolari mi allontana e mi avvicina alla persona che voglio essere, mi tiene sempre in guardia, non lascia che mi sieda. Ma questo, dopotutto, è quello che la vita sempre fa, non solo la vita dopo il tumore. La luce dentro, però, quella è rimasta. Era già mia e me la tengo stretta. Neppure un tumore, per quanto drammatico e complesso da superare, può regalare ciò che non abbiamo. È come un vino scadente: amplifica i sentimenti più nascosti.Oggi ho un seno ricostruito, un corpo indebolito e un’anima segnata. Non so cosa verrà, ma sono ancora qui. E sono pronta per scoprirlo.