A new day. A better day
- di Redazione
- 13 Settembre 2019
- La collana di perle di Giulia
Torna l’atteso appuntamento del venerdì con la rubrica curata dalla nostra amica Giulia Muntoni
Non c’è frase che io reputi più vera e, al tempo stesso più dura da mettere in pratica, di "Se ami qualcuno, lascialo libero".
Quanto è difficile non stringere troppo forte a sé l’oggetto del proprio amore? Fidarsi che tutto vada come deve e che, se non sarà destino, qualcosa di diverso ci renderà felici? Difficilissimo.
Eppure, mi crea parecchi problemi anche il cercare di NON lasciar andare la presa su me stessa, ogni giorno. Perché permettere allo spirito di perdersi tra mille pensieri e stati d’animo non è libertà, ma abbandono.
Ogni volta che penso a questo, mi torna alla mente, ancora prima che riesca a formularlo sotto forma di pensiero, il ricordo degli unici anni in cui io sia mai riuscita ad essere presente a me stessa più di sempre (o almeno così pensavo), i due anni in cui mi sono sentita invincibile.
Manco a dirlo, si tratta dei due anni successivi alla fine della chemio. Uno stato di lucidità emotiva e di assoluta positività durante il quale tutto sembrava possibile. E lo era.
So bene di non essere un caso isolato. Quante volte, da allora, mi sono chiesta insieme ad altre compagne di viaggio il perché di quella perdita di "benessere". In tante si sono interrogate sul perché ci sia voluto un evento così drammatico ed estremo per sentirsi piene di potenziale e perché quella sensazione ci abbia poi inesorabilmente abbandonate, scivolando via senza che la potessimo afferrare e trattenere.
Oggi però, rispetto agli anni scorsi, penso di essere soddisfatta della spiegazione a cui sono giunta: le persone che siamo state in quell’arco di tempo che ricordiamo come "fuori da ogni schema" non sono apparse dal nulla né ci hanno mai lasciate. Sono ancora qui, dentro di noi, è il nostro punto di vista a essersi trasformato. E Dio solo sa quanto io per prima fatichi a ricordarmelo.
L’attaccamento alla vita può averci spinto, senza che avessimo il tempo di accorgercene, a beneficiare di un vero "stato di grazia" in cui ci sembrava di aver risolto qualunque conflitto e ricevuto un paio di ali magnifiche e robuste, ma è la paura della morte che faceva da carburante. Quella versione di noi era la proiezione di tutto il coraggio e la tenacia di cui siamo capaci, moltiplicata per mille e impacchettata in una bella confezione di adrenalina.
Perciò, anche quando non me lo ricordo e sento di aver fatto passi indietro, credo fermamente che la vera gioia debba appartenere alla Vita e non possa venire soltanto dal pensiero di essere scampata alla morte.
Ho una grande voglia di abbracciare la Giulia che ho conosciuto in quei due anni; le sarò sempre grata, certo, perché mi ha fatta fermare e ricordato di abbracciare la bambina in lacrime che per decenni avevo ignorato. Ma, contrariamente a quanto pensavo fino a pochissimo tempo fa, dopo averla salutata la voglio lasciare andare. Non posso e non voglio essere lei. Perché, nel frattempo, ho fatto altra strada e le cose che ho superato e imparato dopo il nostro congedo, lei non le conosce.
Perciò sono più ricca io.
Chi l’avrebbe mai detto? I segni che pensavo mi deturpassero l’anima, una volta ricoperti dalla polverina dorata della gratitudine, mi sembrano quasi belli. Anzi, sono meravigliosi. Formano un paesaggio che mi si addice. Non è più immacolato e idilliaco come un tempo, ma solo le rarefatte oasi lontane dal trambusto della vita lo sono.
Benedetta sia questa nuova mappa di pensieri da imparare a leggere e interpretare, ogni curva tortuosa che pensavo di non riuscire percorrere che invece ho attraversato. E benedetti anche i tratti di strada futuri, tutte quelle volte in cui, ricordandomi della strada impervia già alle mie spalle, io e la bambina che mi dorme in braccio ce la caveremo sorridendoci.