

I parp inibitori migliorano le condizioni delle donne con tumore all’ovaio in fase avanzata
- di Redazione
- 28 Febbraio 2020
- Italia ed estero
Tre diverse molecole hanno dimostrato di allungare in maniera significativa la sopravvivenza libera da malattia nelle donne con tumore ovarico sieroso di alto grado, il tipo istologico più comune di carcinoma dell’ovaio.
Gli studi sono stati pubblicati nel mese di dicembre dal New England Journal of Medicine e hanno dimostrato l’efficacia della classe di farmaci chiamata parp inibitori, indicando che i benefici dovuti ai tre farmaci (Prima, Paola e Velia) sono molto simili, nonostante si tratti di molecole diverse, di diversi i protocolli di intervento e di diverse popolazioni di pazienti, tutte con forme avanzate e aggressive di malattia, ma con caratteristiche molecolari differenti.
I parp inibitori sono farmaci che bloccano l’azione dell’enzima parp coinvolto nella riparazione del DNA delle cellule cancerose e, nel caso specifico dei tre trial appena pubblicati, si tratta di niraparib (studio Prima), olaparib (Paola), e veliparib (Velia). "Olaparib e niraparib sono già stati approvati per la terapia di mantenimento nelle pazienti sensibili al platino, cioè nelle donne con tumore ovarico che per almeno sei mesi dalla fine della chemioterapia non hanno avuto recidive. Olaparib è approvato solo per pazienti con mutazione BRCA 1/2, mentre niraparib per tutte le donne sensibili al platino", ha confermato la dottoressa Domenica Lorusso, ginecologa oncologa e responsabile della Ricerca clinica della Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS, nonché co-autrice dello studio Prima. In tutti e tre i trial le pazienti coinvolte sono donne affette da carcinoma ovarico allo stadio III e IV, quindi molto avanzato, e alla prima diagnosi. Dal punto di vista istologico si trattava di carcinomi sierosi di alto grado, cioè costituiti da cellule poco differenziate e per questa ragione molto aggressivi.
"Nel corso di Esmo 2018, il congresso europeo di oncologia dello scorso anno, vennero presentati i risultati dello studio Solo-1 che dimostrò che le pazienti con tumore dell’ovaio con BRCA mutato trattate con olaparib dopo essere state sottoposte a chirurgia e chemioterapia con platino hanno un vantaggio di tre anni di sopravvivenza libera da malattia rispetto alle donne con le stesse caratteristiche che però non fanno terapia con il parp inibitore. Anche l’anno successivo, sono stati presentati dati sui parp inibitori come strategia di mantenimento dopo platino e chirurgia, ma questa volta la popolazione di donne sulla quale sono stati testati i farmaci era composta da donne affette da carcinomi di alto grado, come nel caso di Solo-1, ma indipendentemente dal fatto che avessero o no mutazione BRCA. Ecco, questo aspetto è quello che hanno in comune i tre studi di cui parliamo. Hanno arruolato pazienti con e senza mutazione", ha confermato la dottoressa.
Lo studio Prima è uno studio condotto in Europa, così come il trial Paola, ed è molto simile a Solo-1. Le donne coinvolte erano tutte affette da tumore ovarico di nuova diagnosi e sono state trattate con 6-9 cicli di chemioterapia con platino e sottoposte a intervento chirurgico. Poi, sono state randomizzate, cioè distribuite casualmente in due gruppi: a un gruppo è stato dato niraparib come terapia di mantenimento per tre anni, all’altro è stato somministrato un placebo. Ma mentre Solo-1 aveva arruolato soltanto pazienti con mutazione BRCA, nello studio Prima sono entrate anche donne prive di questa mutazione e donne con difetto di ricombinazione omologa o HDR, un tipo di difetto nella riparazione del DNA che include un’ampia gamma di anormalità genetiche che possono essere rilevate con vari test: le mutazioni BRCA sono una delle molte HRD. "Tra l’altro nel 67% dei casi si è trattato di pazienti con cattiva prognosi, con un tumore non asportabile in prima istanza, che avevano avuto necessità di fare chemioterapia prima dell’intervento chirurgico. Hanno tratto vantaggio dal parp inibitore le donne con il deficit del sistema di ricombinazione omologa HRD, che in tutti questi studi è stato valutato con un test che si chiama MYChoise. E ancora, a seguire, le pazienti negative al test per HRD, sebbene in maniera minore, e infine quelle prive di mutazioni BRCA. Insomma, in misura diversa la terapia di mantenimento con niraparib ha prolungato la sopravvivenza senza malattia a tutta la popolazione di donne in studio", ha confermato l'oncologa.
Lo studio Paola, o meglio Paola-1, ha invece confrontato la combinazione olaparib-bevacizumab con bevacizumab utilizzato da solo in pazienti con tumori sierosi o endometrioidi in III o IV stadio di alto grado indipendentemente dalla presenza di mutazione BRCA: una popolazione simile a quella del Prima quindi. Il bevacizumab è un anticorpo monoclonale antiangiogenetico, cioè un antitumorale che inibisce la vascolarizzazione delle masse cancerose e che viene utilizzato nei tumori ovarici come terapia di mantenimento. "Anche questo studio è stato straordinariamente positivo ha dimostrato un incremento del tempo alla recidiva in tutta la popolazione arruolata con un vantaggio significativo nelle donne sottoposte a terapia con entrambi i farmaci rispetto a quelle trattate con il solo bevacizumab. La cosa interessante è che quando si vanno a osservare i risultati sulla base della natura molecolare della malattia si vede che le pazienti con mutazione del BRCA beneficiano moltissimo della combinazione olaparib-bevacizumab, le pazienti con il deficit del sistema di ricombinazione omologa beneficiano abbastanza della terapia, non ne beneficiano invece le pazienti prive di deficit della ricombinazione omologa", ha indicato Lorusso.
Il terzo e ultimo studio, il trial Velia, è stato condotto negli Stati Uniti e ha utilizzato il parp inibitore veliparib. La differenza fondamentale di questo trial rispetto agli due è che in Prima e Paola la randomizzazione, cioè la distribuzione casuale delle pazienti nei diversi bracci, veniva fatta alla fine della chemioterapia con platino, in Velia la randomizzazione invece è stata effettuatala prima della chemioterapia, dopo la diagnosi. "È una differenza fondamentale perché la popolazione arruolata in Velia comprende sia pazienti che rispondono al platino sia pazienti che non rispondono, quindi una popolazione peggiore dal punto di vista prognostico rispetto a quella degli altri due studi, perché non selezionata sulla base della risposta alla chemioterapia", ha ricordato la dottoressa.
Velia è uno studio a tre bracci: ha confrontato infatti gli effetti della chemioterapia con platino da sola (il primo braccio), della chemioterapia più veliparib (il secondo), e della chemioterapia più veliparib più due anni di mantenimento col parp inibitore (il terzo braccio). "Per ora sono stati presentati i risultati del confronto tra chemio da sola e chemio più veliparib seguito da mantenimento col farmaco e il risultato è stato che dando veliparib insieme alla chemio e come mantenimento per due anni si riesce ad aumentare in maniera significativa il tempo libero da malattia nelle pazienti con mutazioni BRCA e in quelle con il sistema HRD alterato. Non si sono osservati grandi vantaggi nelle pazienti HRD negative cioè e in quelle prive di mutazioni BRCA", ha spiegato.
L’obiettivo è chiaramente quello di arrivare a una diagnosi personalizzata per la paziente. "Ora: si tratta di analisi esplorative, che suggeriscono più che dire con certezza, e saranno necessari altri studi per confermare questi risultati. Però emerge che le pazienti mutate BRCA e quelle con deficit del sistema HRD sono quelle che beneficiano più di tutte della terapia con i parp inibitori, e questo dato è trasversale a tutti e tre gli studi. Il dato dice che si va sempre più verso la personalizzazione della medicina, verso una terapia mirata al caso singolo, selezionato in base alle caratteristiche molecolari del tumore. Già con l’arrivo dei parp inibitori in seconda linea abbiamo lavorato moltissimo per rendere disponibile il test del BRCA in tutte le pazienti con tumore ovarico che oggi è previsto dalle nostre linee guida nazionali, dove è scritto che tutte le pazienti con questa malattia, tranne gli istotipi mucinosi e border line, devono essere avviate al test per la ricerca della mutazione del BRCA già alla diagnosi. Ora dobbiamo ragionare se estendere prima o poi quest’obbligo anche al test HRD, che è qualcosa di più del BRCA: è il BRCA più l’analisi di tutta una serie di altri geni che contribuiscono al riparo del danno del DNA. Si tratta di un test più complesso del test del BRCA. Ma crediamo sia irrinunciabile per il futuro", ha ribadito Lorusso.