La storia di Giò
- di Redazione
- 27 Febbraio 2017
- Testimonianze
Il racconto di Albachiara Bergamini in memoria della sua amica, arrivato secondo al premio Mundula
Lo sapevo... lo sapevo che ritornare in quell’atrio desolato, aspettare l’ascensore troppo lento insieme a tante altre persone, tutte un po’ tese e preoccupate:
"A che piano va signora? Io al quarto"
"Io al quinto, e lei?"
"Io invece al sesto"... il piano non faceva poi tanta differenza, era comunque triste arrivarci; lo sapevo che mi avrebbe ripreso quell’ansia inquieta, memore dei giorni travagliati al letto di mio padre.
Ma la vita mi riportava lì, al quinto piano dell’ospedale oncologico della mia città, nel tentativo di portare un sorriso sul tuo volto, Giò. Il bello era che il sorriso non ti mancava, forte com’eri delle tue origini barbaricine, testarda e volitiva. Andarti a trovare per me era come ricambiarti di tutto l’affetto che la tua voce allegra mi dava al telefono quando pensavo: "Ora lo dico a Giò".
E ora volevo dirti nel modo più convincente possibile: "Stai tranquilla, vedrai che è solo allo stadio iniziale, abbi coraggio..." ma anche quello non ti mancava.
Forse mancava a me, che ti vedevo ogni giorno più magra, e intravedevo nei tuoi occhi un’ombra di tristezza e di apprensione, che facevi di tutto perché non trasparisse.
In un primo momento non avevo capito quanto fosse serio il male di cui soffrivi, perché di tumore ovarico si parla poco, troppo poco, e la stragrande maggioranza di noi donne lo conosce appena, oppure lo confonde con altre patologie femminili. Insomma, di tumore ovarico le donne muoiono per carenza di informazione e quindi di prevenzione.
Quindi mi sono seduta davanti al computer e mi sono informata: con grande preoccupazione ho appreso che il tumore ovarico è il tumore femminile fra i più letali e il meno conosciuto, colpisce circa 5.000 donne ogni anno nel nostro Paese, 250.000 nel mondo, ma sei italiane su dieci non conoscono questa patologia, e sette su dieci non sanno indicarne i sintomi e gli esami cui sottoporsi.
E’ un male che aggredisce in modo subdolo, è definito, tra l’altro, il killer silenzioso... una donna non riesce a valutare sintomi ben definiti perché li confonde con altri di patologie minori, e quando se ne accorge è quasi sempre troppo tardi. E forse anche tu non te ne sei accorta in tempo o chi ti seguiva non ti ha consigliato bene, non so, non l’ho mai capito.
Ma avevi cominciato a patire, purtroppo, sulla tua pelle, la gravità del tuo male: eri stata operata già un paio di volte, in modo a dir poco… invasivo, e avevi affrontato anche due cicli di chemio che ti avevano ulteriormente devastata, peraltro senza nessun successo perché eri, per tua massima sfortuna, resistente alle cure.
Ma tu caparbiamente guardavi avanti: "Sai, andrò a Milano, mi hanno selezionato per una nuova cura sperimentale" mi hai detto un giorno. "E’ magnifico Giò, sono contenta, vedrai che questa cura avrà finalmente effetto e tutto andrà benissimo, devi avere solo ancora un po’ di pazienza" ti ho risposto con un velo di apprensione, "Però mi hanno detto che non saprò mai se sarò sottoposta alla vera cura oppure ad un placebo, questo è il protocollo... non ho alternative, starò al gioco!".
E così, da forte donna combattente, sei andata a Milano, salendo e scendendo dagli aerei, prendendo i taxi la mattina all’alba e tornando distrutta.
Un giorno ci eravamo date un appuntamento per vederci, solo noi due, e ti eri presentata con un cappellino di paglia, civettuolo e per te inusuale.
"Come sei carina Giò!" ti ho detto abbracciandoti, felice di questo tuo gesto femminile, foriero di una buona disposizione d’animo e tu, sorniona e autoironica: "Ti piace il mio nuovo look? Non posso prendere il sole, e poi la parrucchiera mi ha fatto i capelli troppo corti!".
Riuscivi a scherzare persino sui tuoi capelli perduti con la chemio, come ti stimavo Giò. In quel momento ti avrei stretta con tutta me stessa per trasferirti un po’ della mia salute, per non doverti più vedere così smagrita in quei vestiti troppo larghi.
Ci eravamo sedute ad un tavolino di un bar in centro e avevamo chiacchierato lungamente, di tua figlia e dei miei figli a cui dedicavi sempre pensieri affettuosi e materni: "Troppo forte la tua Vale, vedrai che troverà la sua strada..., che intelligente Carlo, ti darà delle soddisfazioni, stai tranquilla". Avevi quell’abitudine rara che hanno certe persone di interessarsi al prossimo prima che a sé stesse: ricordo infatti che quando facevo il tuo numero per sentirti ed avere notizie della tua salute, rispondevi chiedendo: "Come state?". Mi spiazzavi sempre e anche quel giorno ti interessavi affettuosamente a noi.
Ad un certo punto, però, quell’ombra che ogni tanto attraversava i tuoi occhi li ha di nuovo adombrati, e ho capito che volevi trasmettermi qualcosa che ti faceva stare male, un sentimento che ti angosciava. Hai cominciato a parlarmi del profondo senso di solitudine che una donna patisce quando si trova ad affrontare un male come il tuo: assenza di riferimenti, spiegazioni, contatti, informazioni, consigli.
In una parola sola: conforto.
"Mi hanno dimesso senza spiegarmi nulla, senza darmi consigli su cosa avrei potuto e dovuto fare, dove avrei potuto trovare anche solo un fisioterapista… allora ho cercato informazioni sul web, ma a livello locale nulla di nulla, solo notizie su un paio di siti a livello nazionale ".
E mentre parlavi, il tuo volto si era acceso di un profondo disappunto e una nuova luce combattiva illuminava i tuoi occhi: "Non è possibile lasciare una donna ammalata così sola! Una donna che è stata operata, a dir poco invasa e mutilata! Se me la cavo farò qualcosa perché le donne ammalate come me non siano più sole, siano più informate dei rischi che corrono e su quello che potrebbero e dovrebbero fare."
Le tue guance si erano fatte rosse quando hai aggiunto: "La solitudine uccide come il cancro, perché avvilisce ogni tuo sforzo di guarigione".
"E’ un’ottima idea Giò, forse manca proprio una rete di informazioni a disposizione di noi donne, magari un sito web dove fare domande e trovare risposte...". I pensieri volavano e si presentavano vorticosamente a quel tavolino "…e anche un forum dove incontrarsi anche virtualmente, darsi il buongiorno, darsi conforto, farsi coraggio….".
E tu, sempre più entusiasta "Si, si, è proprio quello che ho in mente e….", ti sei interrotta per un momento per bere un sorso d’acqua "…e vorrei che tu, che sei già impegnata nel sostegno alla ricerca sul cancro, mi dessi una mano. E’ veramente importante, credimi!".
Io, commossa dalla bellezza dei tuoi pensieri, ho avuto solo la forza di dirti "Lo faremo Giò, lo faremo insieme, te lo prometto! Tu metticela tutta per riprenderti e vedrai che organizzeremo una cosa importante... e utile! Del resto, chi ferma una donna barbaricina?".
A queste parole i tuoi occhi, un attimo prima accesi ed inquieti, si sono rasserenati, certi della promessa che ti avevo fatto e dell’impegno che avrei diviso con te.
Sono ritornate quindi le chiacchiere a quel tavolino... e ci hanno portato lontano, alla ricerca di risposte che non sarebbero più arrivate, in un futuro sempre più corto.
Dopo quel giorno, ti ho accompagnata Giò, in tutta la fase finale del tuo percorso, in tutte quelle sere che mi avvicinavo alla tua stanza quasi in punta di piedi, con il timore di quello che avrei potuto trovare, entrando.
Fino al giorno in cui i tuoi occhi curiosi e indagatori sono diventati assenti e la tua risata confortante si è spenta sul viso smagrito.
E allora è stato solo un mesto cadenzare del tuo respiro con il mio, con quelli di coloro che ti erano al fianco, in silenzio e rispetto.
Respiro sempre più lungo, stentato ma ancora prepotente ed incredulo, fino all’ultimo debolissimo soffio...
Cara amica, il tuo è stato un lungo e sofferto "decollo" e mi manca ancora oggi il poter pensare: "Ora lo dico a Giò", mi manca la tua partecipazione affettuosa, la tua disponibilità a vederci: "solo per il gusto di stare insieme", come dicevi sempre, senza orpelli o forzature.
Ma sento che sorvegli sorniona le nostre azioni.
Il male spietato di cui soffrivi ti ha impedito di realizzare i tuoi programmi nei confronti di tutte le donne, ma una l’hai salvata Giò, hai salvato me.
La tua tragedia mi ha insegnato che in ognuna di noi deve esserci un campanello d’allarme sempre pronto a suonare ogni volta che un piccolo sintomo minaccia la nostra salute.
Perciò sono stata attenta al mio corpo, non mi sono trascurata e mi sono sottoposta a quegli accertamenti che forse non avrei preso in considerazione se non avessi capito, grazie a te, quanto è importante la prevenzione. E infatti, puntuale, è arrivata anche la fatidica frase: "Signora, lei ha una cisti ovarica, presumibilmente un tumore ovarico borderline; le consiglio di togliere entrambe le ovaie, con urgenza!".
E così, ecco che di nuovo entro in quell’andito desolato, salgo con l’ascensore troppo lento fino al sesto piano dell’ospedale oncologico e il mio pensiero va a te, Giò, immancabilmente.
E sento che mi sei vicina.
Mi preparo con coraggio all’intervento, anch’io incredula di quanto tutto stia accadendo così velocemente. E passeggio per i lunghi corridoi azzurri su cui si aprono da un lato le finestre e dall’altro le porte delle stanze di degenza.
Accenno uno sguardo veloce e discreto verso i letti occupati dalle pazienti: donne giovani, meno giovani come me, anziane.
Alcune senza capelli o con la testa fasciata in un foulard annodato dietro, altre costrette a letto collegate alle flebo, altre ancora in piedi che timidamente fanno qualche passo.
Donne italiane e donne extracomunitarie, accomunate da un destino comune.
E mi chiedo come hai fatto Giò a trascorrere tanti giorni rinchiusa in una stanza d’ospedale, guardando sempre il muro davanti al tuo letto o ansiosamente verso la porta in attesa di un volto amico. Tu che eri uno spirito libero e raccontavi appena possibile della tua giovinezza in campagna, a contatto della natura di cui conoscevi tanti segreti.
Ed ecco arriva il momento dell’intervento, sono calma perché so che lo devo fare e spero che vada tutto bene anche se sono in ottime mani, saluto commossa i miei figli e mio marito e mi avvio, sulla barella, verso la sala operatoria.
Seguo lo snodarsi delle luci dei lunghi corridoi fino alla stanza dove si attende il proprio turno e scopro che una mano pietosa ha attaccato ad un trave, proprio in corrispondenza dello sguardo di chi è sdraiato, un’immagine del Cristo e mi affido a quel volto e a tutti coloro che sento essere i miei Angeli Custodi, compresa te, Giò.
"L’abbiamo preso in tempo, signora. Abbiamo fatto un’isterectomia completa per la sua massima sicurezza, ora stia tranquilla".
Infine, la frase è quella che volevo sentire. Sono stanca ed affaticata, ma confortata. In realtà mi sento di aver perso una parte di me, la mia essenza di donna, ma ringrazio Dio di aver già avuto i miei figli. Posso comunque guardare ancora avanti con entusiasmo e fiducia nel futuro.
E con lo stesso entusiasmo farò di tutto per mettere in atto il tuo desiderio, Giò, che è diventato anche il mio: aiutare le altre donne affinchè capiscano, imparino che non possono trascurarsi, tengano presente che esiste un male che non perdona, il tumore dell’ovaio. Perché noi donne siamo al centro della nostra famiglia, ci ammaliamo noi e stanno male tutti; perché tanti figli e tanti mariti non piangano la perdita di una moglie e mamma come sei stata tu, Giò.
Abbiamo costituito un gruppo di persone sensibili a quello che potrebbe essere definito il tuo testamento spirituale, e stiamo già organizzando incontri ed eventi volti ad informare le donne, a spronarle a controllarsi e prevenire quindi un male di cui si parla troppo poco. Abbiamo attivato un Numero Verde dedicato alle donne che hanno bisogno di chiedere informazioni e consigli in merito al tumore ovarico e ci stiamo organizzando per la creazione di un sito web, come desideravi e auspicavi tu, Giò, in cui le donne potranno trovare informazioni sui sintomi della malattia, cosa fare, com’è la cura, informazioni sui centri di riferimento, contatti, risposte e spiegazioni dai medici oncologi e psiconcologi che si metteranno a disposizione.
Perché non siano Mai più sole.
Saresti soddisfatta Giò, se tu ci fossi saresti certamente in prima fila, testarda, caparbia, combattiva... forte delle tue origini barbaricine.