L'imbucato

L'imbucato

  • di Redazione
  • 16 Aprile 2018
  • Il Tumore Ovarico

Mai Più Sole vi propone la testimonianza di Valentina Ligas, uno dei racconti pubblicati all’interno del sedicesimo volume di "Storie di ordinaria resistenza femminile", edito dall’Associazione Donne Al Traguardo Onlus

Ero lì, seduta sulla sedia, davanti a me un calice di vino. Attonita, con le labbra schiuse, quasi senza respirare, guardavo i commensali che ridevano raccontando aneddoti e barzellette. Il mio silenzio si miscelava alla musica delle loro parole e risate. Gli invitati erano così divertiti e concitati che nessuno si accorse di quel momento. Lo ritagliavo spesso, quante più volte potevo, come se volessi ribadire a me stessa che ero immensamente fortunata ad avere quella tavolata davanti o, forse, ero semplicemente drogata di quell’ attimo. Arrivava, inaspettato, un crampetto, pulsava nello stomaco ed io rimanevo immobile, per goderlo in tutta la sua interezza.

Uno di quei pomeriggi un perfetto sconosciuto oltrepassò l’uscio di casa in punta di piedi. Aspettò che gli ospiti si fossero congedati ed irruppe in camera mentre, seduta sul letto, sorridevo, ripensando al pranzo appena terminato. La porta, irruenta, si aprì e sentii una voce roca. Non capii alcuna parola, ebbi paura, non riuscii a fiatare, piansi, chinai la testa. Era Mister Black, una sagoma amorfa di cui non volli distinguere fattezze e tratti particolari. Mi bastò sapere che fosse lui. Sbattè la finestra fino a chiuderla, abbassò la serranda, spense l’interruttore confondendosi col buio della camera. Si avvicinò all’ingresso della stanza, pronto a sbattere anche la porta, mentre l’ultimo spiraglio di luce baciava il mio viso. Riuscii a sollevare la testa e lo sguardo, rimasi a guardare senza avere la forza di fermare Mister Black, quando il campanello di casa suonò felice ed incontenibile una, due, tre volte. Mi destai e corsi fino al portone di casa. Aprii, era Gaia, un’ amica, uno degli ospiti che avevo salutato poco prima, mi abbracciò e con voce emozionata mi informò: "E’ nato Gabriele!". La strinsi quanto più forte potevo, saltammo abbracciate descrivendo un cerchio, piansi. Poi la guardai dritta negli occhi, anche lei era commossa.

"Corriamo in ospedale!" , vibrò la sua voce.

Era nato il bimbo di una nostra cara amica, la prima mamma del gruppo, ci sentivamo profondamente zie. Conobbi Gabriele, avvicinai la mia mano tremante alla sua, la strinsi, abbracciai la vita.

Mi dimenticai di Mister Black, in ospedale non feci che ridere e chiacchierare come se non lo avessi mai incontrato. Si fece tardi, rientrai a casa, mi diressi in camera, di lui nessuna traccia. Felice, come una bambina che ha appena ricevuto la ninnananna mi addormentai, subito, senza pensieri. La mattina seguente feci visita ad Anna, una donna che aveva conosciuto Mister Black otto anni prima di me.

"Stai tranquilla, tra un paio di mesi sarà solo un ricordo e dopo, piano piano, avrai dimenticato tutto", rassicurò con un sorriso. Mi confortò sapere che qualcuno ci era già passato e che, nonostante tutto, Anna emanava una lucente serenità. Anche io potevo e dovevo vivere con la stessa armonia. Occorreva onorare la speranza che mi aveva regalato la donna come fosse il più prezioso dei doni. Ritornai a casa e mi chiesi  perchè subito dopo aver incontrato Mister Black era arrivata la lieta notizia e Gabriele era diventato l’unica realtà che contava di quella giornata. Per cosa vivevo? Sì, per cosa vivevo? Per ricevere annunci come quello, fu la mia risposta, per condividere una gioia con gli amici. Vivevo per i miei commensali. Era possibile che esistesse una gioia più forte della tristezza? Forse sì, forse lo avevo sempre saputo, avevo solo bisogno di esserne consapevole. La gioia brillava e splendeva fino cancellare il buio lasciato da Mister Black, scriveva sopra il nero con colori fluorescenti ed indelebili, scriveva emozioni e amore.

Poi raccontai ai commensali più stretti di Mister Black con incosciente e cieca ingenuità. Non tutti la presero bene ma capirono che c’era poco di cui rammaricarsi, ciò che contava era che loro rimanessero a gioire al mio fianco, così ogni difficoltà sarebbe stata leggera e poco importante.

Nessuno aveva invitato Mister Black, ma lui si presentò ad ogni ricorrenza. L’imbucato, puntuale, si sedeva al mio fianco. Tentò varie volte di occupare i pensieri come fosse il più bello degli amori, farmi dimenticare tutto il resto, spremere le mie energie e alimentare il proprio nero. Mi diede colpetti sulle spalle per ricordarmi che c’era e per ricevere attenzioni. Non gli parlai una sola volta e quanto più cercava di prendere la scena più si faceva piccolo ed insignificante. C’era ma esistevano solo le risate e le dolci parole degli invitati seduti davanti al tavolo. Continuavo a sorseggiare il vino, ammaliata, loro diventavano splendidi, come non li avevo mai visti.

Dopo qualche tempo Mister Black mi offrì quattro aperitivi, non avevo scelta, non potevo rifiutare se volevo tenerlo buono. Quattro cocktail rossi, qualcuno li chiama chemioterapia, io li chiamavo spritz. E come nelle migliori ragazzate, dopo il drink, ad una certa ora si correva in bagno per il mal di testa e la nausea.  Quanti fuochi d’artificio gli dedicai davanti al gabinetto! Non contento Mister Black volle che il suo ego fosse pure da strapparsi i capelli. Li persi ma scoprii di avere comunque mille aspetti positivi: grazie alla parrucca vantavo un piega perfetta ed ero in ordine come forse non lo ero mai stata. Anche le gambe, senza alcuno sforzo, erano lisce e depilate. Il tempo scorreva, Gabriele cresceva, gattonava ed iniziava a dire le prime parole. Bastava che vedesse uno sgabello cadere o che facessi una smorfia e tutto era risata e gioco. Lasciai che che fosse lui a guidarmi nei mesi di terapia, col sorriso e lo stupore per ogni nuova scoperta mi insegnò più di mille discorsi filosofici. Solo Gaia e gli amici più stretti sapevano che avevo contratto un cancro al seno, vari colleghi di lavoro e conoscenti non notarono nessuna differenza. Questa fu per me una significativa conferma perchè mi resi conto che il modo in cui consideravo il tumore, un normale sacrificio imposto dalla vita simile a tanti, traspariva anche all’esterno. Era un’esperienza che raccontavo solo se capitava l’occasione, perchè avevo degli argomenti ben più interessanti da condividere. Ma ho raccolto l’eredità lasciata da Anna e, anche io, quando conosco donne che hanno incontrato Mister Black regalo la mia testimonianza col sorriso, il sorriso di chi vuole ricordare che non si è mai sole. Sono trascorsi quattro anni dall’arrivo di Mister Black. Mi ha regalato un seno nuovo, perfetto, totalmente rifatto ed una cura ormonale di mantenimento. A lui penso rare volte. Anche quando eseguo i vari controlli semestrali, ovvero eco-mammaria, analisi del sangue e transvaginale, pur essendo nella tana del lupo, non gli rivolgo alcuna attenzione, ma rastrello oltre il motivo per il quale sono in una sala d’attesa ospedaliera. Mi ritrovo a setacciare, paziente, fino a trovare qualcosa che mi interessa e regali un sorriso dei suoi, di quelli che mi ha trasmesso Gabriele. Ritaglio qualche chiacchiera o risata che dia significato e dignità a quel tempo trascorso che sarebbe sprecato se lo utilizzassi per preoccuparmi o lamentarmi. Questo non significa sottovalutare  Mister Black ma dargli l’importanza che merita, non dargli la scena perchè lui sta dietro le quinte davanti al palcoscenico in cui scorre la vita.